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punti critici del DL 137 - riflessioni di Franca Da Re

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Messaggio  Admin Gio Ott 16, 2008 8:14 pm

DECRETO LEGGE N. 137 DEL 1 SETTEMBRE 2008: ASPETTI CRITICI

ART. 1: Cittadinanza e Costituzione
Riaffermare l’obbligatorietà dell’insegnamento dell’educazione civica è senza dubbio cosa opportuna. L’educazione civica come disciplina autonoma non era espressamente richiamata nelle Indicazioni nazionali del primo ciclo e nel Documento Tecnico sull’obbligo di Istruzione, tuttavia le competenze ad essa collegate erano espressamente citate nei traguardi dell’area culturale storico-sociale per il primo ciclo e nell’asse culturale storico-giuridico-economico del secondo ciclo.
Avviare una sperimentazione nazionale sull’educazione alla cittadinanza e alla costituzione pare francamente esagerato; sarebbe sufficiente affermare che le conoscenze legate alla Costituzione e alle regole, alle norme, alle leggi che governano la convivenza concorrono in modo fondamentale alla costruzione delle competenze sociali e civiche (competenza chiave di Lisbona) e pertanto devono essere convenientemente trattate dentro le discipline storico-sociali.
L’educazione civica in senso lato, invece, compete a tutti gli adulti operanti all’interno della scuola e deve avere carattere trasversale. Fa parte del l’educazione nel suo complesso.

Art. 2: Valutazione del comportamento degli studenti
Il comma 3 precisa che la materia sarà dettagliatamente regolata da apposito Regolamento che seguirà nei prossimi mesi, tuttavia non sfuggono alcune importanti criticità.
C’è un equivoco di fondo che scambia la comunicazione della valutazione di profitto con il processo di valutazione. Sia che si utilizzi un giudizio sintetico (sufficiente, buono, ecc.), sia che si usi una lettera (A,B,C,D,E) sia che si usino i decimi, tutti questi sistemi sono scale ordinali, ovvero etichette che definiscono una gamma di risultati. Dal punto di vista docimologico esse si equivalgono tutte e hanno lo stesso livello di trasparenza (o meglio, di opacità). La trasparenza è data dal complesso di osservazioni e di evidenze che stanno dietro al “voto”, comunque esso sia espresso. La comunicazione data in un verso o in un altro non esime ovviamente dal processo vero di valutazione che sta dietro e che conferisce autenticità alla valutazione intermedia e finale.
In tal senso attribuire importanza eccessiva ad una forma piuttosto che ad un’altra come fa il decreto, rischia di oscurare il processo vero di valutazione a scapito della mera comunicazione; in pratica sottrae trasparenza, non ne aggiunge. Inoltre la votazione sul profitto della disciplina in generale è comunque opaco, qualunque sia la scala ordinale che si utilizzi. La maggiore trasparenza è data dalla attestazione del grado di conseguimento delle diverse competenze e delle abilità e conoscenze ad esse collegate. In questo senso, ad esempio, la scheda del 1993, che aveva sì etichette ordinali (A,B,C,D,E), ma riferite a singole competenze, era senz’altro lo strumento più trasparente, anche se non si configurava ancora come vera attestazione del grado di competenza, poiché utilizzava la scala ordinale, invece che i descrittori analitici propri dei framework di competenza (PISA, EQF, framework delle lingue, ecc.).
Comma 3: la valutazione del comportamento che incide sulla valutazione finale. Naturalmente anche quando ci si riferisce al comportamento l’attribuzione di un’etichetta ordinale in decimi dovrebbe corrispondere ad una serie di evidenze che dia senso al giudizio: da una formulazione accurata delle dimensioni di comportamento che sono oggetto di insegnamento e di osservazione, fino agli strumenti di verifica di tali comportamenti. La formulazione del curricolo socio affettivo, che dovrebbe essere alla base di qualunque valutazione accurata sui comportamenti presuppone un patto educativo molto forte prima di tutto entro la comunità docente sulle dimensioni assunte e sui loro significati; in caso diverso, i rischi di arbitrio, comunque sempre presenti quando si tratta di relazioni, sono altissimi. Non sfugge il pericolo legato ai meccanismi cognitivi che regolano la memoria e l’attribuzione di salienza che si dà agli avvenimenti. E’ evidente il rischio di sovrastimare gli episodi salienti di condotta che avvengono a ridosso della valutazione; in assenza di solide osservazioni sistematiche è alto il rischio di attribuire eccessivo significato a singoli episodi clamorosi, magari decontestualizzati, piuttosto che ad evoluzioni longitudinali magari lente, apprezzabili solo con osservazioni sistematiche. Esiste poi un altro pericolo: a quegli alunni che hanno un profitto nelle materie comunque buono, nonostante una condotta manchevole, i docenti attribuiranno più difficilmente un voto insufficiente in condotta, sapendo che esso vanificherebbe comunque un livello di abilità soddisfacente; per quegli alunni, invece che, per varie ragioni, sia la condotta che l’apprendimento saranno carenti, sarà più facile attribuire il voto negativo in condotta. Il rischio è che gli alunni più svantaggiati risultino anche i più severamente giudicati.
Inoltre non dobbiamo scartare un’altra considerazione: un voto insufficiente in condotta determina la bocciatura e con essa un rischio più alto di abbandono scolastico. Ma se la scuola, che è l’agenzia più direttamente chiamata ad educare alla convivenza civile espelle queste persone “difficili”, dove andranno? Come dire che il luogo che doveva per primo fare ogni sforzo per recuperare alla corretta convivenza queste persone, per primo le espelle… Non è detto che ciò accada, ma attenzione, si rischia la resa pedagogica in nome di una supposta severità e “serietà”.

Art. 3: Valutazione del rendimento scolastico degli studenti
Ai commi 1 e 2 registriamo uno svarione concettuale rilevantissimo, quando si dice che “….la valutazione delle competenze da essi acquisite è espressa in decimi”. La valutazione delle competenze non è esprimibile in decimi, come testimoniano tutti i modelli a noi finora noti e già citati di framework. La valutazione di competenza presuppone, appunto, l’esplicitazione dell’indicatore della competenza stessa e i descrittori analitici relativi al livello raggiunto. Ovviamente si è grossolanamente confusa la valutazione di profitto sulla materia in generale (della cui opacità si è già detto), con la valutazione del grado di competenza, che è cosa più seria e complessa. Inoltre la certificazione di competenza non può contemplare una nozione di “non sufficienza”; si certificano le competenze possedute, anche minime. Ciò che non è conseguito, semplicemente non viene certificato. Ciò si desume chiaramente dall’esame dei framework internazionali (es. lingue, PISA) dove si parte da certificazioni di livelli elementari, per arrivare a livelli di eccellenza. Certamente vi sono dei livelli ancora, auspicati per gradi di scolarità, per cui se un alunno quindicenne consegue un livello di padronanza tra i più bassi, ovviamente ci si preoccupa; tuttavia non si parla di “non sufficienza”, concetto che appartiene alla valutazione di profitto per disciplina, ma caso mai di livello di competenza inferiore alle attese
Tutto ciò testimonia il perdurare della confusione nella materia dello staff ministeriale che si era già dimostrato con la intempestiva richiesta di “certificazione” di competenze in uscita dalla scuola secondaria di secondo grado, due anni fa, in totale assenza di indicazioni circa il modello curricolare sottostante, i frame work da utilizzare, le metodologie da attivare. Il provvedimento ha fatto piombare le scuole nel più totale disorientamento che perdura tuttora col proliferare di creative e improbabili produzioni di “certificazione” che ben poco hanno a che fare con la valutazione delle competenze. E’ appena il caso di sottolineare che la valutazione di competenza presupporrebbe un curricolo formulato e realizzato per competenze. Tale circostanza non appartiene alla pratica delle scuole, tanto più che di competenze e di curricolo per competenze si è cominciato a parlare solo con l’introduzione delle Indicazioni Nazionali, nell’a.s. 2007/08 e non in modo univoco, data la formulazione non orientante in tal senso delle Indicazioni stesse. Più chiaro e rigoroso in tal senso è invece il Documento Tecnico sul biennio obbligatorio, che formula precisi indicatori di competenze disciplinari e li declina nelle relative abilità e conoscenze. Anch’esso comunque lascia alle scuole il compito di formulare i framework che descrivono i livelli di padronanza e quindi gli strumenti di attestazione della competenza.
Il comma 3 così formulato, in assenza di norme regolamentari e di richiami a normativa precedente sulla collegialità del giudizio, è assai pericoloso. Speriamo nelle norme regolamentari promesse. Il fatto che un solo voto non sufficiente possa determinare la non ammissione, in assenza di richiami alla collegialità del giudizio, potrebbe determinare il caso che una materia, magari non fondamentale nel curricolo, possa causare, in caso di “irriducibilità” del docente, la non ammissione, anche se il resto delle votazioni fosse sufficiente. Ci si augura davvero che il futuro regolamento disciplini con precisione la materia.
Il comma 4 abroga quasi totalmente l’art. 177 del D.lvo 297/94, lasciando non normata la valutazione, fino all’uscita del nuovo regolamento. Anche due dei commi non abrogati (il n. 1 e il n. Cool vengono sospesi fino a nuovo regolamento. Si rileva che il comma 1 (sospeso) era quello che consentiva di richiamare una funzione collegiale del consiglio di classe nella valutazione dell’allievo.
Nello stesso comma viene richiamato il decreto legislativo 226 del 2005, già rinviato nella sua applicazione al settembre 2008 con la legge n. 228/06 e al settembre 2009 con la legge n. 40 del 2007. La sua esplicita menzione farebbe supporre che esso non è più rinviato, dato che la materia novata dal decreto 133, la valutazione, dovrebbe avere effetto da questo anno scolastico?

Art. 4: Insegnante unico nella scuola elementare

Le motivazioni addotte alla restaurazione del docente unico nella primaria sono chiare solo negli aspetti legati al contenimento di spesa. Il richiamo alla necessità per il bambino di un punto di riferimento ha carattere assiomatico, è indimostrato, non è suffragato da alcuna solida motivazione pedagogica. Il bambino ha indubbiamente bisogno di punti di riferimento, ma non è scritto da nessuna parte che debbano essere “unici”, anzi. Piuttosto debbono essere coerenti, ma l’unicità non necessariamente garantisce la coerenza.
Alla scuola dell’infanzia, in età più precoce le insegnanti sono almeno due; non si capisce poi come il riferimento debba diventare necessariamente uno. Con questo principio, anche la famiglia dovrebbe avere un solo genitore o perlomeno uno solo che sia tale e l’altro che faccia solo da contorno …
La pluralità di docenti – fatta salva la coerenza del gruppo – consente invece al bambino di riferirsi all’uno o all’altro adulto a seconda dei bisogni cognitivi e affettivi, con maggiori opportunità relazionali e culturali.
Dal punto di vista del docente, invece, il prendersi cura in modo esclusivo, per tempi protratti, da soli di gruppi classe sempre più complessi e difficili da gestire, comporta una sovraesposizione allo stress e alla responsabilità che potrebbe compromettere alla lunga la qualità dell’offerta educativa e finanche la salute degli operatori.
Dal punto di vista dell’offerta formativa, le 24 ore di insegnamento settimanali potevano essere adatte ai Programmi del 1955, non a quelli di oggi; si ricordi che l’elevamento a 27 e a 30 ore settimanali è dipeso dall’introduzione di materie divenute fondamentali, come la lingua straniera e l’educazione alle nuove tecnologie, senza contare il vincolo rigido e obbligatorio nell’economia dell’orario, rappresentato dalle due ore di religione cattolica o di attività alternative.
Se si volessero conservare le nuove discipline (e ci si augura che non si vogliano penalizzare), bisognerebbe per forza intervenire nell’economia oraria di materie come la lingua italiana, la matematica, le scienze (ritenute fondamentali peraltro dall’Europa e dagli Organismi internazionali, come l’OCSE) o, diversamente, nelle materie dell’area antropologica (storia, geografia … educazione civica) che costituiscono il fondamento dell’identità sociale e culturale (ottava competenza chiave di Lisbona); oppure si dovrebbero ridimensionale le discipline legate ai linguaggi (musica, arte, motoria) con un appesantimento rischioso del curricolo verso le discipline più strettamente cognitive, a scapito dell’area espressiva e creativa.
Non pare utile inoltre confrontare carichi orari di altri Paesi (che contano meno ore annuali) perché l’organizzazione complessiva del tempo scuola, dell’offerta formativa e dell’intera società sono diverse. Inoltre nella maggioranza dei Paesi prevale la formula del tempo pieno, magari con più pause durante l’anno scolastico; le 24 ore settimanali sembrano andare invece nel verso opposto. Il rischio è che le esigenze sociali delle famiglie vengano in molti casi coperte da doposcuola di dubbia qualità, magari a carico delle famiglie.
Il comma 2, che fa riferimento a eventuali carichi aggiuntivi di orari da dare ai docenti farebbe presupporre che eventuali ore in più oltre le 24 possano essere organizzate affidando ai docenti in servizio un orario di lavoro più lungo; la formulazione è ambigua e arcana, dovremo aspettare chiarimenti regolamentari.

In sintesi, la formulazione attuale del decreto 137 lascia più punti oscuri, dubbi, rischi, che luci. Non ultimo, desta perplessità la scelta della formula del decreto legge (che di solito si utilizza per le urgenze) per una materia che merita (la valutazione) non strettamente urgente e che merita piuttosto attenta ponderazione e per l’organizzazione della scuola primaria, che avrebbe applicazione solo dall’anno venturo.

Ci si augura che intervengano massicci correttivi in sede di conversione e che gli strumenti regolamentari mettano ordine nelle numerose lacune lasciate dal testo.

Franca Da Re

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