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Dedicato alle maestre,la parte migliore della scuola

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Messaggio  sabina Mar Dic 16, 2008 1:02 am

Dedicato alle maestre, la parte migliore della scuola


di
Vita Cosentino/Cristina Mecenero

DEDICATO ALLE MAESTRE, LA PARTE MIGLIORE DELLA SCUOLA
di Vita Cosentino

In questo mio contributo intendo ragionare attorno a cosa posso
-possiamo- imparare da questo straordinario movimento delle scuole
elementari. E' straordinario perché contiene elementi nuovi e
significativi, che permettono di riaprire un orizzonte di senso in cui
collocare l'intera scuola e il nostro mestiere di insegnanti.
Parto
da un presupposto: ormai è sotto gli occhi di tutti e di tutte che i
sistemi scolastici dei paesi occidentali sono in profonda crisi. Almeno
per tre motivi. Da una parte non funziona più l'assetto stesso della
scuola come trasmissione di conoscenze: sempre più ci rendiamo conto
che non c'è un mondo delle conoscenze costituito da certezze condivise
e quindi trasmissibili; dall'altra avvertiamo con sconcerto quanto le
nuove generazioni siano lontane dai modelli culturali e linguistici in
cui noi siamo cresciute/i; in ultimo cresce la consapevolezza che
l'idea dell'istruzione come riscatto sociale ha perso forza in un'epoca
che tende a ridurre tutte le passioni alla passione di "Fare soldi e
subito" come mostrano, per es., i giovani, soprattutto maschi, del
nord-est, lasciando precocemente la scuola.
Che ci sia necessità di
cambiamento è incontrovertibile. Sta capitando però che alla crisi dei
sistemi educativi si trovino risposte che risultano sempre più dannose.
Qui in Italia gli interventi legislativi degli ultimi anni, invece di
partire dal buono che c'è nella scuola, hanno puntato tutto
sull'aspetto tecnico organizzativo, si sono ispirati all'aziendalismo,
al privato, alla logica mercantile, fino al disastro di oggi. Con la
riforma Moratti si sta andando, per via amministrativa, attraverso
continui piccoli o grandi provvedimenti, alla distruzione sistematica
della scuola pubblica.
La mia idea è di approfittare di questa
crisi -vera- e del fermento politico suscitato dalle risposte -false-,
per ripensare da capo il senso della scuola e del nostro mestiere.
Ripensare la scuola in movimento, con l'idea di non rimanere solo nel
contro ma riformarla in prima persona, per quanto sta in ciascuna,
ciascuno di noi, che non è poco. Non limitarsi a resistere ma
cominciare a mettere in parole l'esistere in spazi di libertà: la
libertà non ce la dà nessuno, consiste nel movimento stesso di
diventare liberi e libere.
Questa lotta, con la straordinaria
partecipazione dei genitori, con le loro dichiarazioni ai giornali, ai
siti internet, ha fatto emergere un giudizio sociale ben netto: la
scuola elementare va bene. In questione c'è più di un modello orario -
il tempo pieno -, in questione c'è un modo di fare scuola, una
concezione della scuola.
Le maestre lavorano bene. Al giudizio
sociale mi sento di affiancare un altrettanto netto giudizio politico e
simbolico: le maestre sono la parte migliore della scuola, hanno
prodotto in questi anni un sapere pratico che ha qualcosa di prezioso
da insegnare a tutta la scuola, per cambiarla davvero e in meglio.
E' uscito da pochi giorni, per le edizioni Junior, il libro Voci
maestre di Cristina Mecenero, che è una maestra elementare, che
finalmente dà voce alle maestre che sono il 95% della scuola elementare
e finora sono rimaste troppo mute. Intervistandone alcune e
osservandole in classe, il libro ne fa un soggetto che produce sapere.
Cristina propone il sapere della maestra come "Saper stare vicino
all'inizio, saper rimanere in contatto con le cose essenziali, di
base". E constata che " E' un'arte che nella nostra cultura è posta ai
margini, quando addirittura non ecclissata".
Un libro corale che
consiglio di leggere a insegnanti di ogni ordine di scuola, ma anche a
intellettuali che con troppa leggerezza denigrano chi ci lavora, ai
genitori interessati a figlie e figli, a chi ha a cuore le nuove
generazioni e una possibile convivenza umana.
Ispirarsi alle
maestre per cambiare la scuola sembra semplice, ma non lo è. Di mezzo
c'è un cambiamento di sguardo sulla realtà, un capovolgimento dei
criteri di valore dominanti nella società e nella scuola, quelli per
cui il sapere dell'esperienza delle maestre vale zero. Un inconsapevole
sentimento di superiorità nei confronti delle maestre è esperienza
comune e diffusa. E infatti prevale in chi insegna alle medie, e ancora
di più alle superiori. Per non parlare del come le considera la
società: sono pagate meno e lavorano di più. E c'è una ragione. Nel
2001 come movimento di autoriforma della scuola avevamo organizzato un
convegno dal titolo "Le maestre e il professore", perché d'improvviso
su questo valore zero si era aperto uno squarcio di consapevolezza su
una di quelle questioni che stanno nel fondo di una cultura, un
presupposto implicito che ci muove, ma di cui non abbiamo coscienza.
Assieme, nel dialogo abbiamo messo a fuoco come sia l'idea
aziendalistica dell'insegnamento che quella gentiliana poggiassero su
una precisa gerarchia di potere legata al sapere, fatta di valori
simbolici riferiti all'essere donna e all'essere uomo: come una
piramide, dove al fondo sono le maestre e un sapere che tiene assieme
conoscenza e affetti, che ha cura degli esseri umani e delle relazioni,
a cui non si assegna valore, e in cima invece c'è il professore e il
sapere neutro specialistico, considerato più nobile perché oggettivo e
scientifico, perché più vicino all'accademia e depurato dagli aspetti
emotivi. (gli atti di questo convegno si possono consultare nel sito
autoriformagentile.too.it)
Rovesciare quei valori simbolici
intacca, anche nelle nostre menti, una precisa gerarchia di potere,
apre dei varchi che rendono praticabili altre strade. Ora è un tempo
buono per farlo, perché questo movimento delle elementari, coinvolgendo
i genitori, è "uscito" dalle scuole e ha creato un terreno di lotta e
di discussione nel tessuto stesso della società.
Sta ricomponendo
attorno alla scuola il corpo sociale, con un'idea di società che sia
effettivamente civile e pubblica e condivisa. Molte delle scuole che
lottano con più intensità a Roma e a Milano, sono in quartieri di
periferia, dove le famiglie lavoratrici, quelle meno benestanti, si
vedono ogni giorno portar via pezzi dello stato sociale. Ma cosa si può
fare quando ci si trova individualmente davanti allo sportello
dell'ospedale a pagare un ticket raddoppiato? Niente, si vive solo uno
stato di impotenza. La scuola invece è di per sé un luogo di incontro,
potenzialmente uno spazio pubblico, e si stanno creando le condizioni
perché lo sia davvero.
Con questo movimento delle elementari la
scuola ha ritrovato la sua lingua, che non è quella degli obiettivi,
delle griglie, della mission, dell'efficienza, ma non è neppure quella
delle manifestazioni contro, con parole d'ordine dure e gridate, quasi
militaresche, o delle piattaforme rivendicative. La sua lingua è quella
di una comunità vivente in cui le cose che contano sono quelle umane ed
elementari che hanno a che fare con la vita di tutti i giorni. In
piazza, la presenza massiccia di donne, e -soprattutto- il voler tener
dentro anche bambini e bambine, misurandosi con la loro sensibilità, ha
cambiato la lingua e la forma politica della manifestazione. A Milano,
per S. Valentino, l'hanno chiamata "Manifestazione d'affetto per la
scuola pubblica". Trovare forme linguistiche nuove significa trovare
altre forme di politica. Portare in piazza foglietti come quello che ho
ricevuto dalle mani di una bimba, che avrà avuto 8 anni, è rendere
politico il quotidiano. Diceva: "Le mie maestre vogliono continuare a
lavorare insieme". In questa semplice frase c'è un mondo: la bimba che
non voleva perdere da un giorno all'altro una delle sue due maestre, il
desiderio delle due maestre di continuare a fare scuola in un certo
modo, cioè quello costruito sull'essere due in classe, che permette di
fare attività creative, i suoi genitori a cui va bene così. Questa
semplice frase che in prima battuta sembra confinata a quelle persone
lì, come un loro desiderio quasi privato, quando viene scritta su un
foglietto distribuito in piazza acquista una dimensione pubblica, pur
rimanendo un linguaggio tanto vicino al quotidiano da sembrare banale.
La scuola è un sistema vivente e all'interno di esso -volenti o nolenti
- siamo dentro sistemi di relazioni. Con i modi relazionali che
pratichiamo, con la lingua che usiamo, in modo consapevole o
inconsapevole, noi veicoliamo una certa idea di scuola, l'accreditiamo
e la facciamo vivere. In questo c'è la possibilità di una scelta
politica che sta a ciascuno, ciascuna di noi. Cominciamo a domandarci
qual è l'idea di scuola che facciamo vivere: o è la scuola del registro
e del programma, quella che ne fa una struttura di dominio e di
riproduzione delle classi dominanti, come era un tempo; oppure è quella
delle attività a pagamento, che ne fa una merce da comprare e vendere
sul mercato, come è prefigurata dalla riforma Moratti; oppure - e
questa è la possibilità che si apre in movimento - è una scuola che
diventa fino in fondo pubblica. La dimensione pubblica non è acquisita
una volta per tutte, non è garantita dalla parola statale accanto al
nome della scuola, vive o non vive nelle nostre scelte quotidiane. E'
una lotta giorno per giorno. A cosa dico sì, a cosa dico no? Quanto
tengo fermo dentro di me il senso pubblico della scuola, rimisurandolo
ogni giorno assieme, nelle relazioni che pratico? Quanto le mie
pratiche sono pratiche pubbliche? La dimensione pubblica vive se la
scuola diventa veramente uno spazio in cui, a partire dalla propria
differenza, di sesso, di età, di cultura, si portano desideri,
passioni, curiosità, scoperte, da condividere e su cui costruire sapere
assieme.
ASSIEME CON, queste parole dicono una relazione imprevista
e senza nome nella società che abitiamo. Lo constatava con amarezza già
nell'80 Anna Maria Ortese in Corpo Celeste (pag. 42). Cercava e non
trovava nella letteratura, se non in alcuni poeti, il segno di una
coscienza terrestre ". che abbia al centro la parola essere, prima di avere e potere, la parola essere con gli altri, invece che contro o sugli altri.".
Le maestre sanno, praticamente, come si costruisce sapere assieme con,
perché con l'infanzia, se ci si sta non volendo essere da un'altra
parte, si può stare solo in questo rapporto assieme con. Altrimenti si
fanno guasti terribili.
In questo processo che è un cambiamento
di sé in prima persona, ispirarsi a ciò che di meglio c'è nell'essere
maestra offre l'orientamento di un pensiero radicale. Ha un valore
politico e simbolico. Ha il senso di rifare oggi, nel contesto reale -
nelle mutate condizioni di un tempo presente che ha da pensare la
differenza - il gesto simbolico che fu di Don Milani, quando indicava
nel punto di vista dei poveri, un punto di vista capace di cambiare
tutta la scuola e la cultura.

Intervento scritto per il convegno: NON ABBIAMO TEMPO PIENO DA PERDERE.
Bologna 27-28 marzo 2004

http://www.libreriadelledonne.it/news/articoli/contrib080404a.htm




sabina

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