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Messaggio  Admin Mer Ott 15, 2008 3:36 pm

3. In articulo mortis autonomiae. C’è stata un’epoca in cui avevo un po’ di potere e responsabilità in fatto di autonomia scolastica ed è ora che racconti un aneddoto che dopo dieci anni si può dire. Berlinguer mi aveva incaricato di sondare Forza Italia di quell’epoca (cioè Valentina Aprea) da un “punto di vista tecnico” sul testo del regolamento autonomia per individuare loro proposte che fossero significative e utili ma non pubblicamente dicibili in un’aula parlamentare. Una saggia analisi bipartisan. Mi trovai a lavorare con il simpatico Lorenzo Strick Livers, emissario dell’Aprea (e anche colui che raccolse le firme per un referendum contro i moduli elementari) e trovammo un elemento pienamente condivisibile, di profonda pedagogia liberale e che Berlinguer con grande acutezza accolse. Nell’art. 3 del Regolamento vi è un comma che prevede la libertà di “minoranze” di utilizzare metodologie e forme organizzative didattiche anche diverse dalla grande maggioranza dei docenti. Insomma un Pof non sovietico che prevedeva la libertà di insegnamento come cardine di un pof aperto e rispettoso di tutte le professionalità. Devo amaramente ammettere che proprio coloro che proposero questo emendamento sono stati i più grandi disobbedienti a questo principio che è alla base dell’autonomia della scuola. Con il regolamento autonomia, con l’art. 3 sul pof e il 4 e 5 sulla flessibilità didattica, può un Parlamento imporre il tutor, il maestro unico, ecc..? Molti hanno dubbi di principio. Perfino la modifica del Titolo V° Costituzione, dove la scuola autonoma è garantita lo sconsiglierebbe. Maestro unico anticostituzionale? Parliamone.
Qual è infatti la soglia dei Livelli essenziali delle prestazioni a carattere universale che al legislatore è dato definire e quali gli spazi reali di autonomia? Per essere franco, neppure Fioroni uscì dalla trappola e molte sue decisioni sono state altrettanto anti-autonomia. Ne ha parlato ampiamente Franco De Anna, ma qui rilancio la questione perché dirimente sulla natura dell’autonomia della scuola nella sua essenzialità: la libertà di organizzazione didattica. Che a me pare continuamente sottratta da tutte le politiche dal 1999 ad oggi. Sottratta prima che dal punto di vista quantitativo (il personale, che comunque conta) dagli spazi possibile di scelta flessibile, fino ad avere articolazioni diverse nello stesso Pof! Quindi per l’ennesima volta questa fase legislativa mette in crisi (fino alle minuzie degli orari preconfezionati) una vera libertà didattica, la vera anima dell’autonomia scolastica. Anche infliggendo alle “minoranze” sanzioni disciplinari per la disobbedienza. Tanto vale dire che all’autonomia delle scuole resterebbero solo il progettume accessorio e gli open day per imbarcare clienti, ma non la normalità della didattica. Mi spiego prosaicamente: si fosse detto “non ci sono più soldi, queste sono le risorse e con queste arrangiatevi” si sarebbe capito di più (capito non vuol dire accettato), ma che dire della solita Nuova Vecchia Pedagogia di Stato che dal 1848 ritorna sempre a dirci tutte le minuzie della didattica quotidiana?
La parola libertà della scuola pare oggi un’eresia, eppure è la fonte liberale e democratica di una vera scuola aperta, che nel futuro rischia il soffocamento come in passato.
Per queste ragioni teoriche, io non sono formalmente né contrario né favorevole al maestro unico. Ne sono indifferente, perché volterrianamente penso che ogni scuola dovrebbe essere libera di decidere se avere un’unica maestrona cicciona o un’orgia di insegnanti. L’importante è spiegare le ragioni delle scelte e assumersi la responsabilità dei risultati. Ma è costituzionalmente intollerabile che qualcuno dica da Roma per tutte le scuole della Repubblica quante ore una maestra debba stare con una classe. Sarebbe, ad esempio, perfino la morte della Legge 517 del 1977, perché –ad esempio- anche le aperture delle classi per gruppi misti sarebbero escluse.
Poi se vogliamo discutere di pedagogia e vedere caso per caso quale sia il metodo migliore per insegnare, allora siamo qui con le nostre idee e con le nostre esperienze, che certo non amano i maestri solitari. Ma in libertà di scelta, non entro confini (ecco che tornano) così fuori del tempo.

4. Tra pensiero e parola. Io intanto continuo a studiare e a vedere classi e bambini. E imparo molto. Imparo ad esempio che siamo ormai ad un bivio storico sul rapporto tra pensiero e parola. E nessuno ne parla. E’ la questione della falsa volpe di Franco De Anna che ci fa correre in pedagogia dietro a banalità facendoci perdere gli oggetti realmente in gioco.
Il bivio sta in questo. Sempre più bambini (e adulti) parlano senza pensare e sempre più bambini (e adulti) pensano ma non hanno le parole per dire i loro pensieri. La relazione virtuosa tra pensare e parlare si chiama intelligenza, o meglio la produce. Ho passato un’estate a godermi la riscoperta di Vigotsky! E il maestro russo ci insegna ancora il grande rischio della stupidità, quando quel rapporto non viene ben curato, se non c’è una strategia dell’”area prossimale” che fa il dono di una bella ed efficace didattica. A proposito, quanti deputati della Commissione istruzione conoscono l’area prossimale di sviluppo? Come fanno a legiferare sulla nostra organizzazione didattica?
Sta accadendo che la modernità stravolge il senso delle parole e dei pensieri con una neolingua dominante sempre più superficiale, frigida e stereotipata in cui la ricchezza del lessico crolla, sia nei significati che nei significanti, le sfumature scompaiono, i pensieri azzardati o divergenti si fermano prima di diventare parole. Anche l’inglese oggi mitizzato, assieme alla lingua burina della submodernità sta diventando quella neolingua orwelliana che ci sta portando il comunismo, non quello staliniano ma quello con una s in più, più apparentemente dolce e pieno di veline e lustrini, ma altrettanto illiberale. Gli effetti nel breve e nel medio periodo sono di un calo fortissimo del pensiero critico e della parola ricca. Interessa questo argomento il futuro dei sistemi formativi? Interessa per il futuro delle società moderne?
Da tempo parlo di slow school e di un tempo e modi dell’apprendere più profondi e lenti. Non a caso, ma non è questione romantica di una scuola caramellosa. Tutt’altro. E’ la consapevolezza che dobbiamo tornare al duro lavoro sulle parole, sui significati, sul senso della comunicazione. Quel duro lavoro che, guarda caso, ci ha insegnato lo stesso Don Milani (che non aveva una scuola lassista) perché è la parola che rende liberi. Ma non quella al vento, quella consapevole. Un lavoro che non avviene né con una didattica trasmissiva né con una didattica da intrattenimento da maestre-veline-fatine. Ma con la grandiosa fatica della dialettica, della retorica, della ricerca scettica ma intrigante. Insomma della ricerca dei significati del mondo che il grande Comenio già ci ha insegnato secoli fa, e che qui non ri-cito perchè è già nell’incipit di un altro mio articolo del 2003. Per fare questo ci vuole un buon tempo lungo, non pieno di tante cose ma di profondità. Per questo mi sento indifferente ad una discussione sul tempo scuola in sé, mentre mi appassiona la discussione sul tempo scuola se… Se cioè è pieno di cose sagge e di quali cose. Io penso ad una scuola sobria, severa, assolutamente creativa ed esplorativa, mai trasmissiva, mai televisiva. Questa scuola non deve essere corta (si riempirebbe di contenuti selettivi e stereotipati) ma neppure va bene lunga se piena di schifezze. Direi che la scuola dovrebbe essere “lunga e saggia”. Ce n’è bisogno per un nuovo new deal che metta al centro la cittadinanza sociale a visione globale.
Non posso non ricordare, infine, che la questione del quanto tempo dura la scuola è comunque tema dirimente per l’eguaglianza delle opportunità educative. Non è vero che avremo meno tempo per tutti: chi ha meno soldi e opportunità avrà ancora di meno degli altri, ai quali il minor tempo scolastico verrà sostituito con mini club per bambini grassi e sarà riempito dalla pedagogia del karaoke. Appunto la medesima storia della socializzazione delle perdite che sta avvenendo in economia. Ma questa è un’altra storia, se qualcuno saprà contrapporre democraticamente ai “confini” e alle paure un pensiero aperto sulla cittadinanza universale e sulla fraternità laica.

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